Un quinto dei lavoratori dipendenti italiani sono pagati con salari da povertà programmata. Pertanto vivono da poveri. Nonostante lavorino legalmente inquadrati . I dati Eurostat ce lo raccontano.
Poveri nonostante un lavoro. Avere uno stipendio e non riuscire arrivare a fine mese. Naturalmente il rischio povertà è maggiore per alcuni contratti : ad esempio il 15,8% degli occupati part-time non riesce ad arrivarci, mentre i dato “migliora” per il 7,8% dei contratti full-time con contratto a tempo indeterminato. Numeri orribili, da brivido. Sintomi di una “febbre sociale” che inevitabilmente prima o poi potrà esplodere. Una condizione purtroppo diffusa che sta costruendo l’ipotesi futura in cui “potrà sparire una parte consistente di un’intera generazione di under 40 ”.
E’ questa la novità “magica” dell’Era del neoliberismo. Il modello economico mutuato dal mondo angloamericano che ha accompagnato la vita degli italiani, nella Seconda Repubblica (1994 -2017) : la svalutazione progressiva della retribuzione dei lavoratori dipendenti. Quando si è deciso che non vale più nulla in termini salariali. Avere un lavoro in Italia non ti mette più al riparo dalla povertà . I dati del report Eurostat (l’ufficio statistico dell’Unione Europea) relativo al 2016 raccontano tutto ciò. Del resto il neoliberismo nega allo Stato la funzione di perseguire l’obiettivo della piena occupazione, e definisce lacci e lacciuoli contro il fare impresa “i diritti dei lavoratori”, a suo tempo (1970) conquistati e fissati nello Statuto dei Lavoratori. Principi, poi, progressivamente dismessi dalle riforme Treu ( 1997), Sacconi (Berlusconi 2003) e dal Job-act di Renzi (2014).
Siamo di fronte ad un fenomeno tipico solo delle società anglosassoni sino all’inizio degli anni 90, a regime economico-finanziario neoliberista che, infatti, è denominato con le parole inglesi “working poor”. Dopo l’alzarsi del vento neoliberista dal 1994/96 in poi, l’intera Europa è stata investita da questo andazzo antidemocratico. Pertanto, dopo 25 anni di questa follia, in ogni Paese d’Europa c’è oggi una percentuale di lavoratori che percepisce uno stipendio insufficiente a compensare tutte le spese necessarie per mandare avanti la famiglia, per arrivare a fine mese. Ma il problema è che in Italia questa percentuale è superiore alla media UE del 9,6% .
Un dato allarmante specialmente se si somma alle previsioni sulle pensioni future che percepiranno tra 30 anni chi è giovane oggi. Secondo i dati Censis, infatti, almeno 5,7 milioni di giovani che oggi sono titolari di un contratto di lavoro nelle tipologie giuridiche e contrattuali nate dopo il 1996 , rischieranno di percepire una pensione inferiore alla attuale soglia di povertà. Quindi, un po’ più bassa dei famosi 780 euro identificati dall’Istat quale indice minimo di reddito che separa una esistenza dignitosa dalla povertà. L’Italia dal modello finanziario neoliberista – tanto caro ai Berlusconi ed ai Renzi – rischia perciò, in un futuro prossimo (da quì ai 30 anni) ,di diventare un Paese dove né uno stipendio né la pensione saranno sufficienti per arrivare alla fine del mese.
Secondo il presidente di Confcooperative Maurizio Gardini ci troviamo di fronte ad una vera e propria “bomba ad orologeria” che va assolutamente disinnescata. Per evitare il disastro sociale e l’implosione della Democrazia costituzionale italiana nei prossimi anni. Va , perciò, trovata una soluzione affinché ai giovani millennials vengano garantite le stesse “opportunità che hanno avuto i loro padri”.
Il dibattito politico ed economico su questo specifico fenomeno si è però incartato. Perché tende ad eludere il nodo del nonsense di avere adottato, arbitrariamente, in Italia, tra il 1990 ed il 1993 il modello economico neoliberista all’americana, dimostratosi fallimentare già nel 1929 (l’anno della Grande Depressione e del crollo di Wall Street e dell’economia neoliberista basata sulla Finanza che produce ricchezza solo con i pezzi di carta) . In TV si continua a blaterare di pensioni a calcolo solo contributivo e di 41 anni di contributi . Modelli che, appunto, sono alla base del futuro matematico abbassamento degli importi delle pensioni, che contribuirà a realizzare in vecchiaia l’orribile condizione “della infelicità differita”.
L’unica proposta possibile – a modello neoliberista imperante – è quella del salario minimo. Già adottata da tempo in altri parti d’Europa, con l’obiettivo di garantire una soglia di stipendio minimo a tutti i lavoratori, per limitare il più possibile il fenomeno del “working poor”. Ma la nuova classe imprenditoriale nata dalla Seconda Repubblica – che è per lo più è solo capace di fare utili sullo sfruttamento selvaggio dei loro dipendenti pagati con bassi salari – fa orecchie da mercante e s’inventa un “ ipocrita e fantomatico partito del PIL”. Pensando ovviamente a quello loro familiare , non a quello di tutti gli italiani.
Ma per porre le condizioni di un aumento degli stipendi, lo Stato dovrebbe dare vita ad un riordino dell’economia. Ci vorrebbe una politica di programmazione economica e dello sviluppo ragionato delle diverse filiere industriali, un incremento della ricerca per le innovazioni dei prodotti. Bisognerebbe anche ridurre le tasse sul lavoro dipendente (quindi una vera Riforma per un Fisco più equo) da cui però giunge (insieme a quelle dei pensionati) all’incirca l’80% delle entrate per il fabbisogno dello Stato. Al momento però in Italia non c’è nulla di tutto questo.
Nel frattempo l’Eurostat ci informa che il tasso di incremento dei working poor , nei prossimi anni potrebbe attestarsi attorno al tasso di crescita annuo del 23% . E vale poco, tentare di consolarsi con il fatto che in altri Paesi d’Europa ci sono situazioni persino peggiori della nostra. Come : la Romania (dove quasi 1 lavoratore su 5 è povero), della Grecia (14,1%), della Spagna (13,1%) . Sopra la media Europea del 9.6% ci sono anche : la Bulgaria (11,4%), il Portogallo (10,9%) e la Polonia (10,8%), che, però, comunque registrano un trend progressivo alla riduzione di questo fenomeno in futuro. I Paesi migliori dove lavorando si riduce al minimo il rischio povertà sono la Finlandia dove si vive meglio e si guadagna di più con il 3,1% di workers poor, la Repubblica Ceca (3,8%), il Belgio (4,7%) e l’Irlanda (4,8%). Anche la Germania comincia a perdere colpi, sotto aggressione economia degli USA ormai da un triennio. Ma Eurostat, come tutte le istituzioni UE, mantiene sempre un occhio di riguardo verso la “locomotiva d’Europa”. Non è, purtroppo, una novità !