Inchiesta/4. “La Mafia dei colletti bianchi” è sotto tiro dei pm Cosa c’entra “l’Arner Bank” con l’Amia?

Riciclaggio e “mafia dei colletti bianchi” a Palermo. Si complica la partita delle Procure di Palermo, Milano, Caltanissetta e Como, contro questa “nuova mafia” che ha messo sotto pure i “tradizionali corleonesi” (e “pure i tradizionali mafiosi palermitani”), convinta come è della sua impunità assoluta, per la sua capacità di “essersi fatta Stato”, come dicono i sociologi. L’esercito di “denuncianti” (ndr. parrebbero 23, Massimo Ciancimino compreso) – pur composto in gran parte da soggetti che tra loro neanche si conoscono personalmente – è però riuscito a sfornare una tale mole, univoca e circostanziata, di “indicazioni” e “documenti probanti”, che ci sarebbe l’occasione giudiziaria concreta di “sderenare” ben bene “il sistema” di questi riciclatori panormiti.

Naturalmente, l’esistenza frammentata in diversi filoni di indagini ed inchieste, non tutte allo stesso livello di definizione, non consente di offrire una unica data, un “D day”, della cosiddetta “resa dei conti finale”. Di certo, ci sarebbe, che tutto ciò che si poteva scoprire, adesso si è scoperto. Allo stato odierno i PM si riterrebbero soddisfatti di aver chiuso “un ciclo”. Si lavora, febbrilmente, solo, alla collazione dei “riscontri probatori” e degli intrecci economico-politici che via via sono emersi. Una circostanza quest’ultima che, però paradossalmente, non faciliterebbe, affatto, né i tempi, né il formale approdo finale, del lavoro dei magistrati.

Il leader simbolo (ndr. nel senso che è stato il primo cronologicamente) dei “denuncianti”, Massimo Ciancimino, lo ha spiegato a Marco Lillo nell’intervista pubblicata su “Il Fatto Quotidiano”, il 14 Gennaio scorso: “Ci sono molte indagini partite dalle mie dichiarazioni. I mafiosi possono sopportare se gli tocchi l’amico politico, ma se metti in discussione i “piccioli”…..Non penso che Provenzano sia contento di quello che ho raccontato sull’arresto di Riina. Né lo sarà Riina”.

Del resto, le anticipazioni apparse sui giornali della settimana scorsa su una parte delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino ai PM, hanno provocato molto più nervosismo del prevedibile nel sistema economico e politico palermitano, tra i deputati come in Confindustria. C’è da chiedersi perché?

Il procuratore aggiunto della DDA di Palermo, Antonio Ingroia, ha provato a rispondere indirettamente venerdì scorso, all’alba, a “Rai-news 24”. Attento, però, a non violare il segreto istruttorio, contenuto “ nei tanti omissis” presenti nelle carte di Massimo Ciancimino, poi finite sui giornali. “A Palermo, nel panorama economico e politico, Vito Ciancimino non era la sola mela marcia in un cesto di mele sane”, ha sillabato il PM. “Non rivelo alcun segreto – ha proseguito Ingroia – se dico che attorno a Vito Ciancimino era cresciuto un intrecciato sistema di potere politico-mafioso, pervasivo della realtà palermitana, che negli ultimi anni si è solo implementato”. Per spiegarvi meglio,facciamo un passo indietro, fornendovi una cronaca esemplificativa.

Il 7 maggio 2009 la comunità dei banchieri e finanzieri svizzera saltò su dalla sedia leggendo sull’informato, e seguito, sito “Mondialisation.ca” un articolo del giornalista Raphaël Gardel, titolato “Le tresor du clan Ciancimino”. Nel “pezzo” si annunciava l’arresto a Milano (poi tramutato in arresti domiciliari) da parte della DIA, del banchiere Nicola Bravetti, cittadino della Svizzera italiana. Presidente, uno dei fondatori ed azionista, della banca d’affari privata “Arner Bank”, con sede legale e centrale a Lugano (in via Manzoni n°8), con filiali ed uffici collegati a Nassau (Bahamas), Dubai (EAU), Lussemburgo, San Paolo (Brasile) e Milano (Banca Arner Italia).

L’ipotesi accusatoria alla base dell’inchiesta della Procura di Palermo era quella di riciclaggio ed associazione a delinquere. Sotto l’ordine di custodia cautelare destinato al banchiere svizzero – preso mentre si stava recando ad una riunione di lavoro a Milano – c’erano le firme dei PM antimafia Antonio Ingroia, Roberto Scarpinato, Fernando Asaro e Domenico Gozzo. Un colpaccio. Originato dalle indagini su Francesco Zummo, costruttore palermitano. A cui la Procura in passato aveva già sequestrato beni per 300 miliardi di lire, oltre ad averlo sospettato di avere interessi in comune con il costruttore plurinquisito e già condannato (con tanto di beni confiscati nel 2006) Vincenzo Piazza. Zummo, è comunque noto, da decenni, pubblicamente, per il suo rapporto fiduciario e di consuetudine con Vito Ciancimino.

In questa operazione “Zummo-ArnerBank”, la Procura di Palermo ha potuto sequestrare circa 13 milioni di euro di capitali. In sostanza, la Procura ritenne di avere individuato un importante canale attivo di riciclaggio tra Palermo ed il più selezionato ambiente dei banchieri svizzeri, usi a “indirizzare” i patrimoni loro affidati in gestione nella maniera più efficiente ed efficace, e nel contempo più “riservata e discreta”.

Sì, perché l’Arner Bank, in Europa ha un nome ed un curriculum. L’istituto privato non si occupa, di solito, del macellaio o del ginecologo che vorrebbero “liberarsi” di mezzo milione/un milione di euro frutto della loro evasione fiscale. L’Arner è una cosa seria che per meno di dieci milioni di euro, non accetta di impiegare il suo tempo nell’organizzare movimenti così “riservati”. Tratta solo clienti di una certa consistenza ed affidabilità nel loro rispettivo settore d’affari. Non a caso lo stesso giornalista svizzero Gardel, cita tra i maggiori clienti della collegata milanese, due assai noti: Marina e Piersilvio Berlusconi. Che avrebbero affidato all’istituto svizzero la gestione di 37 milioni di euro del loro patrimonio personale.

L’8 dicembre 2009, a pagina 5 sull’edizione palermitana de “la Repubblica”, in un servizio di cronaca sull’AMIA, è comparsa la foto di un convegno economico tenutosi ad Abu Dhabi il 21 settembre 2006, tratta dall’agenzia “Gulf News”, che raffigurava allo stesso tavolo dei relatori, l’allora AD dell’Arner, Massimo Carnicella, posizionato tra i due collaboratori arabi dell’Amia Gamal Fawzi e Mohamed Badikir Ahmad Gazali. Il primo consulente ufficiale (arabo residente in Italia) della missione AMIA negli Emirati, il secondo il socio ufficiale (come impone la legge da quelle parti) dell’AMIA nella società finanziaria “Investor & AMIA Enviromental Services LLC”. Sullo sfondo della foto, troneggiava un cartello pubblicitario della stessa Azienda rifiuti palermitana, sponsor del convegno. Allora, vero è che noi siamo stati tra i primi a chiedersi dove fossero finiti i tre milioni di dollari di “fidejussione” che (sempre la legge degli Emirati) prevedeva – sin dalla delibera originaria dell’AMIA del 2006 – dovessero essere depositati presso una banca locale, a nome di una società mista del luogo. Ma, ciononostante, guardando questa foto pubblicata da Repubblica, scatta spontanea la domanda: cosa diavolo c’entra l’Arner Bank con l’AMIA ? Considerato che Massimo Carnicella non si sarebbe mai “spostato” sino ad Abu Dhabi, per fare, eventualmente, un business su tre “ridicoli” milioni di dollari. Considerato, che l’Arner non è neanche specializzata nell’assistenza bancaria agli enti pubblici.

Comunque, la risposta a questa precedente domanda non ce l’abbiamo. Nè noi, né i PM palermitani. Ma la domanda, di per se, pone un nuovo velo “inquietante” sulla sempre più “misteriosa” missione dell’AMIA ad Abu Dhabi. Posto che in questo emirato, ormai con una certa regolarità, si fermano e si perdono le tracce di indagini e di affari misterici, la cui origine parte da Palermo. Infatti, come è noto, il sistema investigativo e giudiziario di Abu Dhabi prevede la possibilità di collaborare con quello italiano (rogatorie, indagini sul campo, esecuzioni di ordini di cattura, etc) solo limitatamente al reato di terrorismo, meglio se internazionale. Per tutto il resto,non è previsto alcun altro tipo di accordo di collaborazione investigativa e giudiziaria con l’Italia.

Così, ritornano insistenti altre domande. Come avrà mai fatto questa “mafia dai colletti bianchi” a surclassare “la mafia tradizionale”, pure quella che spara ? Come è che oggi questa “nouvelle vague mafiosa” può riuscire, pure, a mantenere un sensoriale “clima di intimidazione” attorno a qualsiasi atto di “discontinuità” accenni il governo regionale di Lombardo, come nel caso della cancellazione dei programmi di realizzazione dei termovalorizzatori? Chi sono questi importanti imprenditori dentro la Confindustria siciliana che hanno portato il bravo e riservato PM Scarpinato a sbilanciarsi pubblicamente nel luglio scorso, lanciando l’allarme contro l’esistenza di più imprese figlie del riciclaggio, su cui la Procura sarebbe pronta a mettere le mani addosso? Tutte domande importanti. Le cui risposte sarebbero decisive per fare chiarezza, e giustizia, a Palermo ed in Sicilia. E magari, pure, un po’ di pulizia, che non guasterebbe.

È di queste ore la notizia del maxiblitz antiusura consumato ad Agrigento, che ha portato a nove arresti e alla pubblicazione della triste storia dell’ex sindaco di Porto Empedocle, Paolo Ferrara, rimasto vittima dal 2004 di un clan di usurai, che da un piccolo prestito di alcune migliaia di euro, utilizzando tassi di rivalutazione progressiva del prestito, sino al 545% , hanno portato la loro vittima sino alla soglia della disperazione assoluta.

Vi chiederete, come mai stiamo citando “l’affaire” usura? Perché vi dobbiamo raccontare una incredibile ed inedita vicenda di cronaca, emersa, appena, a fine anno, ma cominciata già dal marzo 2009. Da allora, a Palermo, gli uffici giudiziari ed investigativi, talune autorità pubbliche e taluni giornali, o loro concessionarie di pubblicità, sono stati bombardati da ben 13 proclami “anonimi” che hanno annunciato la rinascita della setta dei “Beati Paoli”, del loro Tribunale segreto di Giustizia, e di alcune loro inappellabili sentenze di morte, già emesse.

Una vicenda surreale ed inquietante, frutto, pensano gli investigatori – che comunque hanno già redatto un rapporto alla magistratura – di un malessere di una o più persone cadute vittime dell’usura, o di qualche altra terribile ingiustizia, o vissuta come tale, che fantasiosamente, e con l’uso di un linguaggio paradossale, sono stati spinti a scrivere questi tredici “proclami” anonimi. Che risultano scritti, pedestremente, fitti, fitti, con un faticosissimo normografo, per non far individuare la grafia. Ricordiamo, a questo punto, chi erano i Beati Paoli. Una società segreta di cui ha scritto il Marchese di Villabianca nei suoi ” Opuscoli palermitani” (1776), che risultava scomparsa già allora, e forse effettivamente esistita, si pensa, già dal 1100 e, comunque, non oltre il XV o XVI secolo. Una associazione segreta dichiaratamente dedita a contrastare lo strapotere ed i soprusi dei nobili palermitani, troppo adusi ad amministrare direttamente la giustizia criminale in città, servendosi di ordinari sicari, evitando di ricorrere a qualsiasi istanza giudiziaria.

I membri di questa setta Furono giustizieri o sicari? Certamente, l’uno e l’altro. Giustizieri, quando operarono per vendicare delitti impuniti ed impedire soprusi. Sicari, quando si prestarono ad eseguire vendette personali, a pagamento, per conto terzi. I Beati Paoli costituirono un proprio “Tribunale segreto di Giustizia”, a tutela dei deboli e degli oppressi. La setta di incappucciati neri, agiva nell’ombra e nella massima segretezza, operando, preferibilmente, di notte tra i camminamenti sotterranei e dei locali tipo catacombe. Che, realmente, ancora oggi, esistono nel sottosuolo palermitano, collegando il quartiere de “il Capo”, con l’attuale “piazzetta Edison” (tra via Libertà e viale Piemonte) e sino alle falde di Montepellegrino, passando per l’attuale via Imperatore Federico.

In particolare, storici e speleologi, avrebbero individuato la possibile sede del loro “Tribunale segreto” in prossimità della “Chiesa di S. Maruzza”, all’interno del “Palazzo Baldi – Blandano”, piazza Beati Paoli, con ingresso dal “vicolo degli orfani”, dove vi è ancora una grotta corrispondente, munita anche a due cunicoli. La notorietà ai Beati Paoli, la diedero un paio di romanzi scritti da Luigi Natoli e pubblicati all’inizio del ‘900 in dispense periodiche diffuse dal Giornale di Sicilia.

Ma cosa si sostiene nei 13 proclami anonimi dei “nuovi”, presunti Beati Paoli? Si espone – in grande sintesi – la teoria per la quale la città di Palermo sarebbe soffocata dalla ferrea dominazione di una congrega di farabutti e mafiosi che governano con la violenza e con il ricatto dell’usura. Animata da un battaglione di usurai, sparsi in ogni quartiere o ambiente sociale, che godono della copertura di un’unica apparato di potere: insediato al Comune di Palermo, collegato con magistrati corrotti della sezione fallimentare del Tribunale, con altri undici corrotti giudici di pace, con la tradizionale complicità di una importante Banca nazionale operante in città, che riesce a “saltare” tutti meccanismi di controllo, antiriciclaggio, previsti dalla Banca d’Italia, ma applicati ordinariamente solo ai cittadini chiunque.

In particolare, si accusano i giornali ed i giornalisti di “voler ignorare” questa situazione – che si sostiene nota a tutti – come dimostrano i casi delle notizie “stravolte”, pubblicate in cronaca, sul Giornale di Sicilia del 3/4/2007 e del 13/3/2008. Ovviamente, ci siamo procurati le due copie dei giornali citati; ci abbiamo studiato su, ma non ci abbiamo capito nulla. Nei 13 proclami si elencano alcune sentenze di condanna a morte di pubblici ufficiali e rappresentanti delle istituzioni, rivelate come già emesse dal “Tribunale segreto dei nuovi Beati Paoli”. Elenchi di persone e sentenze, che ci guardiamo bene dal riportare e pubblicare. L’unica cosa in chiaro, ed inquietante, è la rivendicazione di almeno quattro o cinque clamorosi “roghi notturni di punizione”, provocati negli ultimi tre anni in città. Ed effettivamente dei casi di roghi notturni, misteriosi, negli ultimi anni sono accaduti. Per gli investigatori si tratta di testi scritti, probabilmente, a quattro mani da due diverse persone: una munita di istruzione elementare (massimo media inferiore) di estrazione popolare; l’altra, potrebbe essere un laureato, avvocato o un impiegato aduso alle cose di Giustizia che potrebbe lavorare come unità amministrativa in un qualche organismo giurisdizionale.

Va rilevato che, al di là di ogni ovvia valutazione – trattandosi comunque di roba anonima – i tredici proclami segreti, trasudano amarezza, sfiducia, delusione, esasperazione e indignazione. Sentimenti, purtroppo, realmente diffusi tra tutti gli strati della società palermitana. Il 22 luglio 2009, davanti la Commissione parlamentare Antimafia, Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia, ha denunciato la crescita costante del fenomeno dell’usura ed la maggiore circolazione di “denaro frutto di riciclaggio” da attività mafiosa. Il rischio concreto – specie in un periodo di crisi economica e di rarefazione del credito bancario – che si possa intaccare seriamente il tessuto sano delle piccole e medie imprese, che costituiscono più di due terzi dell’economia reale nazionale.

Concludo questa quarta puntata con un aneddoto personale. Cosa di cui mi scuso in anticipo. La settimana scorsa, mi ha voluto parlare, riservatamente, un imprenditore che tanti anni fa conoscevo di vista. Si è seduto davanti a me, criticando aspramente la terza puntata della nostra inchiesta contro “la mafia dei colletti bianchi”: “dottore mi ha deluso”, mi ha detto.

In particolare, ha sputato veleno contro “l’Aedilia Venusta” (l’impresa che ha fatto 73 denunce contro racket e mafia) espulsa da Confindustria Palermo da 11 imprenditori/consiglieri, che non hanno mai avuto la sfortuna di dover fare una denuncia alla PS contro qualche estortore mafioso del racket. Per rafforzare l’argomentazione che l’arch. Rizzacasa, titolare di “Aedilia Venusta”, fosse un mascalzone, forse un mafioso, è esploso : “Pensi solo che è l’unico a Palermo, nel nostro settore, che paga puntualmente, a quei zulù di edili, salari e contributi sociali, e pure in modo perfettamente corrispondente a ciò che è riportato nella busta paga. Si rende conto, facendo così, che questo mascalzone, rompe il libero mercato?”.

Confesso che – controllando la mia ira a malapena – ho chiuso repentinamente l’incontro, inventando d’essermi scordato di un altro appuntamento alla stessa ora. L’ho fatto, perché sono stato invaso dalla voglia irrefrenabile di spaccargli la faccia. So che un giornalista non può essere animato da queste passioni sociali. Ma se il razzismo ordinario mi fa ribrezzo. Due volte di più me ne fa, quello che cova contro una categoria di connazionali, e persone umane, la cui unica colpa è quella di non essere socialmente ed economicamente “fortunati”, tanto da doversi duramente guadagnare il pane quotidiano. Mi chiedo e vi chiedo, che razza di mondo è questo? Dove stanno di casa il senso cristiano e la legalità?

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