Nel provocatorio pamphlet “Censura subito!!!” il cantante Ian Svenonius sostiene che solo con “il ripristino della censura” potremo riavere la chance di tornare a combattere per riuscire ad essere effettivamente “liberi”.

La tesi del libro è : solo se potremo tornare a lottare per la nostra libertà, dovendoci difendere da una nuova censura di Stato, saremo in grado di non dare più niente per scontato. Potremo  sperare di tornare ad essere liberi. Solo così potremo tornare a produrre un’arte significativa e libera dagli schemi preconfezionati dal capitalismo finanziario , che non ama essere disturbato mentre guida il mondo al guinzaglio.

Il nome di Ian Svenonius non dirà molto alla maggior parte delle persone, ma nell’underground è una leggenda. Cantante dei Make-Up, frontman magnetico che domina la folla e si muove sul palco come un Mick Jagger incazzato che non si rassegna ad accettare le contraddizioni del mondo in cui si ritrova a vivere, ha una carriera parallela di pensatore decisamente fuori dagli schemi.

Prosegue, così, la sua politica culturale laterale traducendo (grazie a Veronica Raimo) Censura Subito!!!, il provocatorio pamphlet con cui Svenonius ragiona su come il mondo abbia un bisogno vitale di censura, di blocchi e di regole.

Sembra assurdo, ma la tesi è molto limpida. Il nuovo spirito del capitalismo ha reso il “sistema” sostanzialmente invincibile. Ogni mossa che la controcultura, il movimento e le opposizioni possono studiare per attaccare il Capitale, verrà loro malgrado, e nonostante una grandissima buona fede di chi lo attacca, assorbito, messo a sistema e reso valore da monetizzare.

Questo perché accettando un mondo “libero” da vincoli e confini, senza distinzioni e dove tutto è uguale a tutto, si è generata una libertà creativa fondamentalmente tossica, che non va al cuore del problema e cova una violenza inespressa che ci consegna a una frustrazione e, sostanzialmente, all’incapacità di produrre qualcosa di alternativo e veramente significativo.

Non facciamo l’errore di porci la domanda se sia il caso o meno di rinunciare alla nostra libertà. Perché il punto qui è di tornare a lottare per la nostra libertà.

Non è certo la prima volta che si cerca di ragionare su come il capitalismo sia, in buona sostanza, un sistema coercitivo e capace di fossilizzare la persona in schemi ripetitivi e alienanti.

E non scopriamo certo oggi come nel mondo in cui l’Occidente ha rinunciato alla produzione, l’alienazione passi attraverso il consumo permanente.

L’arte, di contro, ha sempre cercato di dire che il Re è nudo, di portare la tensione dentro la consolazione e di rovesciare gli schemi. Ovviamente non è più così, e anche le grandi provocazioni vanno inserite in una sorta di maxi-truffa non tanto del rock’n’roll, ma della produzione culturale tutta. Se tutto è uguale a tutto, niente ha più valore. E anche quei prodotti che sembrano essere provocatori, eruttivi, di rottura, che puntano a provocare reazioni eccessive e mettere in discussione l’ordine vigente, sono in realtà strumenti a servizio del sistema che vogliono a parole combattere.

Il libro di Svenonius genera riflessioni che in realtà dovrebbero essere centrali nel dibattito contemporaneo. Perché abbiamo smesso di produrre arte significativa, là dove per significativa si intende che non sia completamente assoggettata alle logiche del mercato, che non cerchi di essere incanalata dentro i flussi di fruizione contemporanei (ad esempio prima o poi bisognerà estendere il ragionamento su come gli algoritmi influenzeranno la produzione generando opere tutte uguali per entrare nei flussi per generare stream, click e soldi)?

E anche, perché tutti gli elementi che abbiamo sempre pensato essere in grado di liberarci — da Internet al gratis — sono in realtà dei meccanismi che al tempo stesso controllano il consumo (e quindi controllano i nostri comportamenti) e svuotano di valore l’esperienza di quello che si sta facendo?

Pensiamo alla degenerazione di Internet: nasce come luogo in cui le persone, protette dall’anonimato, si cercavano per affinità tematica e costruivano cultura partendo veramente dalla conoscenza di tutti e lo facevano per spirito di servizio, quasi per militanza, in un mondo “aperto” che poteva essere il contraltare perfetto di un mondo chiuso. Quello là fuori, protetto dalle sue logiche escludenti, dalla sua egemonia conservatrice che tagliava fuori davvero la controcultura (o meglio: assorbiva la controcultura precedente lasciando alle costruzioni alternative per lo meno qualche anno di vantaggio prima di essere sconfitte), dalla sua logica del guadagno che creava una barriera visibile contro cui stare.

Adesso è un sistema chiuso, votato interamente al profitto, parcellizzato in siti-mondo come Facebook e Google che raccolgono dati e arrivano a conoscerti come nemmeno la tua psicoanalista, in cui le persone, inserite nella logica competitiva dei Like e del consumo ossessivo non tanto di oggetti, quanto di loro stessi, non possono fare altro che annientarsi a vicenda per sopravanzare. E lo fanno con il nome e cognome in bella vista.

Non è un caso che Tim Berners-Lee il World Wide Web lo regala al mondo, mentre i supposti benefattori (non solo gli ovvi “cattivi” come Mark Zuckerberg e Steve Jobs, ma anche i don’t be evil di Google fino a Jimmy Wales) cercano di monetizzare il General Intellect: e cioè l’uomo stesso.

L’essere umano è diventato l’ultima frontiera da cui il capitalismo estrae valore, e non sembrano esistere più antidoti e meccanismi di resistenza.

Non è paranoia, è un problema che dovremo affrontare. Perché attraverso Internet non passa solo la fruizione artistica (da YouTube a Spotify) che rischia di diventare tutta uguale e di non produrre più nessun tipo di scossa perché sostanzialmente “invisibile” se non viene letta dagli algoritmi nel modo giusto, ma anche l’idea stessa di democrazia: dal modo che le persone hanno di stare insieme, alle linee politiche (non pensate solo a Rousseau e alle sue contraddizioni, ma anche a come la lettura qualitativa e quantitativa del sentiment online influenzi e orienti le piattaforme tematiche dei leader di riferimento, come Matteo Salvini). L’essere umano è diventato l’ultima frontiera da cui il capitalismo estrae valore, e non sembrano esistere più antidoti e meccanismi di resistenza.

Per questo Svenonius, nel suo marxismo eretico e radicale, propone di ritornare alla censura. Prima di tutto, per liberarsi di tutto il rumore di fondo, il brusio e il meccanismo coercitivo di distrazione permanente. In secondo luogo, perché solo attraverso una restrizione si può generare una reazione di rottura autentica.

Le infinite possibilità “percepite” del progresso sembrano uno specchietto per le allodole, e la crisi del pensiero liberale le mostra tutte per quello che sono: chimere irrealizzabili. La rabbia deve essere sfogata, la tensione deve essere assecondata, l’arte deve tornare a produrre qualcosa che sia generativo e alternativo per davvero.

“La censura” ci serve perché diventa un muro, reale e visibile, che è possibile “distruggere”, o per lo meno per capire cosa sta dall’altra parte e cosa non bisogna fare per diventare come il nostro peggior nemico.

Forse ritornare a mettere le cose in prospettiva, per i musicisti, per gli scrittori, per tutti quelli troppo impegnati a seguire il flusso perdendo di vista una Big Picture ormai schiacciante, e quindi portati alla consolazione anche là dove sembra qualcosa di innovativo, sperimentale e contaminato, e pensare che non è vero che tutto è possibile, potrebbe essere un buon antidoto all’Inevitabile.

Questo libro è un sanpietrino. Comunque la pensiate, non può lasciare indifferenti.

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