La povertà è deprimente. La depressione impoverisce. Il “male di vivere” non è più solo un’esclusiva da ricchi annoiati. A vario titolo e con varie sfumature diagnostiche, in Italia riguarda una area di almeno 13 milioni di persone. In più, l’abuso di sostanze (droghe, alcool, gioco d’azzardo) sta diventando epidemico, mentre l’universo immateriale e crescente dei “sempre connessi” maschera una diffusa ed “intima sensazione” di “isolamento sociale”. È possibile che di queste angosce, di questo profondo senso di solitudine sia volutamente imbevuto il nostro stesso attuale sistema sociale? Una società “individualista”, liberista e “bancocentrica”, come la nostra, pare abbia bisogno di una maggioranza di cittadini depressi, per debilitare la democrazia e far invocare il governo “dell’uomo forte”.
La depressione non è più solo un problema da ricchi annoiati: una situazione di povertà (o la costante ansia di poterla incontrare) aumenta la probabilità di esserne colpiti e rientrando così nella casistica dell’isolamento sociale. Oggi sappiamo che alla radice dei disturbi mentali c’è una vulnerabilità genetica che, però, viene attivata da circostanze “ambientali” di contesto.
La depressione, stando ai dati Istat, colpisce in modo accertato 2,8 milioni di persone, mentre oltre 10 milioni di italiani (secondo una ricerca dell’Associazione Alpa) soffre ed è in cura per stati di ansia o attacchi di panico, etc.
Quindi, la depressione, o altri disagi simili, riguarda un italiano su cinque. Tutti conosciamo almeno una persona che ha sofferto di disturbi psichici. Se così non vi pare, è perché semplicemente non ci siamo accorti del suo disagio e dei suoi problemi. Le classi anagrafiche significativamente (e comunemente) più colpite sono gli under 30 e gli over 60. In Italia ogni anno ci sono circa 4000 suicidi, metà sei quali, stando all’OMS, si sarebbero potuti evitare. È come se ogni dodici mesi un piccolo paese svanisse nel nulla.
Negli Stati Uniti – che su alcuni temi sono una proiezione del nostro futuro – la situazione è nettamente più grave. Con 45 milioni di disturbi psichiatrici diagnosticati ogni anno, le proiezioni statistiche danno la probabilità che entro il 2030 un adulto americano su due svilupperà una malattia mentale nel corso della sua vita. Del resto, l’abuso di sostanze (nel cosiddetto Occidente) è diventato epidemico e l’universo immateriale dei “sempre connessi” maschera un profondo ed inconscio senso di isolamento sociale.
La maggior parte dei casi di malattia mentale non viene curata, più che altro per una combinazione di stigma sociale e/o per difficoltà di accesso alle cure. I più fortunati avranno in dotazione un terapeuta per renderli più compatibili con la società e un cocktail di farmaci per correggere gli squilibri chimici. Molti altri provvederanno a tamponare la situazione con le proprie forze, magari auto medicandosi con droghe e alcol.
In passato, quando di malattia mentale si parlava a malapena, il consumo di alcol era un buon lenitivo, soprattutto per le persone meno abbienti. Oggi non è cambiato molto, in realtà: l’associazione tra alcol e depressione è ampiamente documentata dall’OMS e, oltre ad essere interclassista ed trasversale dal punto di vista delle classi anagrafiche, pare destinata solo a crescere.
Palliativi a parte, un problema così radicato dovrebbe aprire a una riflessione: qual è la radice profonda di questo fenomeno che cresce in maniera esponenziale ?
Lungi dall’essere un male contemplativo, un problema da ricchi annoiati e senza scopo, o da intellettuali romantici con lo sguardo malinconico verso l’orizzonte, la depressione riguarda una percentuale massiccia di popolazione, che certo non coincide più con gran parte delle minoranze più agiate. Anzi. Forse perché è possibile che di questa angoscia, di questo senso di solitudine e di miseria sia necessariamente imbevuta la struttura del nostro stesso sistema sociale?
Oggi, dopo molti studi e dibattiti, sappiamo che alla radice dei disturbi mentali c’è una vulnerabilità genetica, attivata da circostanze ambientali e da eventi stressanti. Molti ignorano però che un qualche livello di vulnerabilità è riscontrabile nella maggior parte delle persone: per chi ce l’ha elevata, anche un evento minore può fungere da innesco; chi invece la possiede in basso grado ha bisogno di un trauma più significativo.
In pratica, la vulnerabilità può essere tamponata dalle circostanze: quelle negative vengono definite fattori di rischio e quelle favorevoli – come una buona istruzione, l’accesso alle cure e relazioni sociali più positive – sono fattori di protezione.
Tra i più poveri, va da sé, i fattori di rischio sono maggiori e – come spiega la psichiatra Jeanne Miranda – i traumi sono così terribili e frequenti che “cercare tra di loro i depressi è come cercare possibili malati di enfisema tra i minatori di carbone”.
Il tasso di depressione tra i poveri è così alto che molti nemmeno si accorgono di essere depressi, né pensano di poter stare meglio. Nonostante quanto ne dica Vittorio Feltri, dunque, la depressione, è anche profondamente correlata allo stato economico di una persona, e/o di come la si percepisce.
L’impoverimento porta a un peggioramento della salute, sia mentale che fisica. Le preoccupazioni finanziarie croniche causano distrazione e spossatezza. E ogni gradino sceso nella scala socio-economica comporta una regressione dello stato psico-fisico.
Come le persone percepiscono il proprio benessere rispetto a quello degli altri attiva lo stress, che innesca gli stati depressivi. O meglio, la correlazione è biunivoca, perché i disturbi mentali (o un corpo malato) portano spesso a un impiego peggiore e un reddito ridotto, finendo per consolidare una situazione di povertà che a sua volta aumenta il rischio di disturbi mentali. La povertà è deprimente e la depressione impoverisce.
Alcune ragioni di questo rapporto interdipendente sono abbastanza ovvie: l’accesso alle cure è più difficile, la dieta è meno sana, nei casi estremi, come chi vive per strada, le condizioni igieniche e l’isolamento non possono che essere malsane. Ma ci sono anche fattori più subdoli. E per capirli dobbiamo tenere presente il fatto che la nostra biologia è in continuo mutamento: i fattori positivi e negativi che si accumulano durante la nostra vita influenzano i nostri caratteri epigenetici, psicologici e comportamentali. Per esempio, lo sapevate che il volume dell’ippocampo (ndr.parte del cervello inserito nel sistema limbico fondamentale per la conservazione della specie umana che svolge un ruolo importante nella formazione delle memorie esplicite) è inferiore di un buon 5% nelle donne che da bambine hanno subito abusi sessuali?
Lo stress è un fattore di modifica davvero enorme. Secondo il professore Robert M. Sapolsky della Stanford University, un fattore di stress decisivo sono proprio le conseguenze psicosociali causate da un basso livello socioeconomico. In pratica, più ci si sente poveri, più la propria salute ne risente. Non a caso la depressione è largamente più diffusa nelle società che hanno un più alto indice di disuguaglianza.
È la teoria già nota della “deprivazione relativa Sapolsky”, che è riuscito a dimostrarla con una ricerca sui babbuini che vivono in libertà nell’Africa orientale. I suoi studi hanno mostrato infatti che i babbuini di “ceto inferiore” riscontrano anomalie nella secrezione di ormoni dello stress come il cortisolo, più altre conseguenze negative sul sistema immunitario, cardiovascolare e sessuale.
Anche negli essere umani – secondo gli studi della biologa Jenny Tung – i livelli elevati di stress continuativo, possono portare all’infiammazione cronica, con conseguenti danni molecolari in tutto il corpo. Inoltre, fattori come depressione maggiore, disturbo da stress post-traumatico e discriminazione razziale, possono accelerare l’accorciamento dei telomeri (ndr. Cappucci proteici strategici nel nostro DNA, il cui stimolato “accorciamento” originato da stress agevola i processi biologici negativi) , rendendo più rapido l’invecchiamento e favorendo il manifestarsi di un cancro.
La povertà fa sì che il futuro sembri meno rilevante. Non solo, l’impoverimento modifica il modo di pensare ed influenza il comportamento. Come spiega ancora Sapolsky, lo stress prolungato ha effetti negativi sull’ippocampo, che presiede all’apprendimento e alla memoria; sull’amigdala, con un aumento delle reazioni di paura e ansia; sul sistema dopaminergico mesolimbico, quindi sui sistemi di aspettativa e motivazione; e anche sulla corteccia prefrontale, indispensabile per la pianificazione a lungo termine.
Il che la dice lunga sul fatto che i più indigenti sono meno portati a perseverare con le cure, al di là dei risultati immediati. “La povertà – spiega Sapolsky – fa sì che il futuro sembri meno rilevante”, e a pensarci bene non è che un razionalissimo sistema di autodifesa. Le persone povere e depresse, conferma il prof. Treisman, in genere si sentono così impotenti, talvolta, da non cercare nemmeno più aiuto. Si sentono disarmate di fronte al destino. Ed è questa una sensazione davvero umiliante per un essere umano.
Il capitalismo contemporaneo è promotore e incarnazione di un’ideologia molto estrema, “l’individualismo”, che vede il motore vitale nel profitto personale e nella competizione, escludendo l’aspetto cooperativo.
Guardandoci intorno ci si accorge che : i salari sono stagnanti, o in calo, per la maggior parte delle famiglie italiane, molti (soprattutto i giovani) vivono in una condizione di permanente instabilità e chi ha la fortuna di avere un impiego stabile lavora più ore rispetto a un contadino medievale. Gli spazi pubblici sono pochi e sempre più privatizzati: i luoghi in cui sia possibile socializzare senza spendere, infatti, sono sempre meno.
Molte delle nostre professioni, inoltre, sono sempre più caratterizzate da quella che Marx, riferendosi alla Rivoluzione industriale, chiamava la “teoria dell’alienazione”. Molti lavoratori sono cioè privati della soddisfazione di produrre qualcosa di cui si veda il risultato finale e di cui essere orgogliosi. Se il proprio lavoro – dove trascorriamo la maggior parte del nostro tempo da svegli – è percepito come senza significato, la salute psichica non può che risentirne.
Eppure non dare priorità al lavoro è impensabile, non solo perché dà da mangiare, ma perché la nostra autostima è interamente misurata dalla nostra produzione economica. Mentre la nostra immagine pubblica, veicolata dai social, è modellata – consapevolmente o meno – intorno a principi aziendali e su paragoni sempre più costanti. Come possiamo pensare che tutti questi fattori non influiscano sulla nostra salute mentale?
Non solo,essendoci, formalmente, un’uguaglianza di opportunità (la solita, ma sempre sottovalutata dicotomia tra uguaglianza di diritto e uguaglianza effettiva) per qualunque sconfitta, per qualunque disagio, per qualsiasi ritardo o svantaggio, in questo conflitto globale permanente, l’unica persona da incolpare resta sé stessi, con il risultato che l’ansia da prestazione addirittura precede la sconfitta, e a volta la costruisce.
I molti studi sull’infanzia dimostrano come la competizione estrema, intesa come paura di non emergere, terrore della mediocrità e peso del giudizio altrui, si formi già prestissimo. Mostrano anche come la componente genetica sia radicalmente surclassata da quella ambientale. Le patologie come depressione e nevrosi, infatti, sono ereditarie solo nel 30% dei casi. Mentre,non a caso, i bambini adottati provenienti da un contesto disagiato, una volta approdati in una situazione più confortevole e meno emergenziale, sono in grado di recuperare moltissimi gap. Per tutti gli altri lo svantaggio comincia prima della nascita e si accumula sempre di più lungo il corso della vita.
È importante intraprendere azioni per migliorare le condizioni di vita quotidiane, iniziando dal momento della nascita. L’importanza delle primissime esperienze per determinare ciò che diventeremo, dovrebbero essere un imperativo per creare un consesso civile nel quale i genitori abbiano sempre più la possibilità di dotare di “fattori positivi “(anzitutto istruzione e poi lo stimolo al formarsi di una autonoma capacità di interrelazioni sociali) la personalità e l’esperienza della crescita dei figli.
L’aspetto e l’obiettivo politico che risulta a tal proposito determinante, e su cui si dovrebbe lavorare di più, è curare con attenzione l’incremento costante del tasso di “coesione sociale”.
La cui diminuzione progressiva negli ultimi 25 anni di epoca liberista, sta facendo emergere sempre più spesso nelle società occidentali “una sorta di voglia di fascismo”, l’aspirazione diffusa al “governo dell’uomo forte”. Perché l’estetica e la fraseologica altisonante dei modelli comportamentali fascistici, offre l’apparenza di riuscire a dare un senso, uno scopo e un’idea di collettività, per quanto contraddittoriamente imbastita sull’emarginazione e sull’odio di altri soggetti del consorzio umano.
L’errore principale rimane quello di considerare i problemi di salute mentale come qualcosa di naturale e ineluttabile. E quindi, da scaricare totalmente in una dimensione individuale, creando la privatizzazione dello stress che non fa che aumentare lo stigma e l’isolamento di chi soffre un disagio.
Qualsiasi campagna di promozione per una maggior tutela della salute mentale è inutile se non si promuove, come presupposto la lotta alla povertà e, soprattutto, alle diseguaglianze. Quel che serve, oggi, è assumersi la responsabilità sociale “di evitare l’evitabile”. Esattamente l’opposto di ciò che oggi il liberismo propaganda ed impone nelle odierne società condizionate dalla “connessione continua” e dalla pretesa esigenza di velocità di/nel dover fare tutte le cose. Ahimè!