“Il caso”dell’assistente vocale Amazon ECHO, che ci geolocalizza a nostra insaputa.. “Alexa sa dove sei”. Ma non c’è alcuna garanzia che possa tenere per sé questo segreto. Il guaio per noi è che Amazon può fare sempre come gli pare.
La scusa è quella di migliorare le performance dell’assistente vocale Alexa (Amazon ECHO). Il prezzo ? Il valore della nostra riservatezza. L’ultima novità in materia ha una connotazione geografica. Se incautamente nessuno si è preso la briga di preoccuparsi delle intrusioni domestiche di Amazon ECHO e non ha dato alcun peso al fatto che gli scudieri di Jeff Bezos spiano le chiacchiere entro le nostre mura domestiche, adesso ci dovrà essere qualcuno che finalmente si indigna. Il pericolo è che non solo il personale del colosso americano del commercio elettronico può ascoltare tutto quello che ci diciamo a casa nostra, ma ha pure possibilità di localizzarci con precisione goniometrica e di ricavare in modo dettagliato la nostra posizione; dove siamo.
Quest’ultima notizia – come la precedente, quella delle “lunghe orecchie” – arriva sempre da Bloomberg che continua a ricevere “soffiate” da soggetti interni ad Amazon ma vincolati da un rigido “nondisclosure agreement” che impedisce loro di parlare liberamente di queste cose. I “whistleblowers” (ndr. un dipendente di un ente pubblico o privato che rende pubblico, riservatamente, atti illeciti che vengono ripetitivamente e abitualmente commessi al loro interno) che lavorano in Amazon e che confidano queste spaventose circostanze si espongono non solo al rischio di licenziamento, ma anche a quello di risarcimenti a parecchi zero per la violazione di segreti aziendali sulla cui riservatezza hanno sottoscritto accordi capestro.
Grazie alla loro “facondia” e al giornalismo investigativo veniamo così a sapere che una squadretta di Amazon, esaminando accuratamente i comandi impartiti dagli utenti “all’assistente vocale”, è in grado di accedere alle informazioni relative alla geolocalizzazione dell’apparato e in alcuni casi a trovare l’indirizzo preciso di casa di chi ha comprato e/o installato Alexa (Amazon ECHO) .
Sono gli stessi utenti a far capire all’assistente vocale dove si trova e la storia potrebbe cominciare con un apparentemente innocuo “Alexa, mi trovi un ristorantino aperto qui vicino a casa?”. Al dialogo tra macchina ed essere umano fa seguito la trasmissione della conversazione ai sistemi centrali, questi “trascrivono” e il gioco è fatto. Naturalmente non ci sono prove che i dipendenti di Amazon provvedano metodicamente al tracciamento degli utenti, ma la piena possibilità che questo possa verificarsi desta legittime preoccupazioni.
La localizzazione resta un dato estremamente sensibile, la cui riservatezza è fondamentale. E’ angosciante, sapere di essere rintracciabili anche quando non si ha piacere di essere trovati. Peccato – capovolgendo i termini della questione – che Matteo Messina Denaro non abbia installato un assistente vocale…
A ben ragionare, infatti, forse non ci sarebbe nemmeno necessità di chissà quali capacità tecnologiche per scoprire dove è andato a finire un determinato prodotto. Un buon “mezzemaniche” di qualche ufficio amministrativo non fatica a ripescare gli indirizzi dall’archivio delle vendite, dal database delle “garanzie” che accompagnano i primi tre anni del prodotto e che fanno capo a un utente, dai pagamenti effettuati con carte di credito dall’acquirente e così via. È vero che quel dispositivo elettronico potrebbe essere stato regalato a un amico o a un famigliare, ma questa eventualità non migliora certo la situazione della nostra privacy perché è solo un tassello in più per disegnare la mappa delle relazioni interpersonali di un determinato individuo.
Secondo quello che Amazon, in seno al programma di auditing di Alexa, ha scritto il 10 Aprile dobbiamo stare tranquilli. Nel “workflow”, ovvero nel flusso di attività assegnate ai dipendenti, non è previsto alcun accesso ai dati identificativi degli utenti e – anzi – la politica aziendale prevede tolleranza zero in caso di abusi o azioni illegittime oppure semplicemente non autorizzate. “Macte virtute” avrebbero detto i latini per complimentarsi per un approccio così rigoroso, ma la gente comune non riesce scrollarsi di dosso un dubbio sostanziale: ma quei dati vengono davvero ottenuti, raccolti, conservati? E soprattutto che fine fanno?
La storia di Cambridge Analytica ci ha insegnato che le nostre informazioni personali non sono state vendute dall’impiegato infedele ma sistematicamente dalla sua azienda. Anche Facebook aveva regole severe per disciplinare chi lavorava al suo interno.
Attenzione, ci dicono che la geolocalizzazione serve per il navigatore o per trovare ristoranti vicino a dove ci troviamo. Nessuno però ci dice che questi dati possono essere utilizzati per altri scopi, e comunque per poter studiare le nostre abitudini. Se un utente fa una ricerca per informarsi sul possibile acquisto di un frigorifero utilizzando i motori di ricerca da un cellulare, subito dopo accendendo il computer, si trova sommerso dalla pubblicità sui frigoriferi.
Nel modo in cui funziona il Web c’è proprio qualcosa che non torna. E sarebbe il caso che gli Stati vi cominciassero a guardare bene dentro, con un po’ più di attenzione di quella dedicata sino ad oggi.