La sentenza della Cassazione su “Mafia Capitale” depotenzia la capacità di contrasto dello Stato contro le mafie. La Sentenza della Corte Costituzionale che stravolge il regime carcerario del 41bis dei mafiosi condannati all’ergastolo “ostativo”, toglie di mezzo la cosa che faceva più paura ai capimafia di carriera. Vi proponiamo, di seguito, le opinioni ragionate della sociologa Anna Lombroso, del magistrato Giancarlo Caselli, dei giornalisti Massimo Fini e Pietro Caruso.
Lascia perplessi e frastornati, la Sentenza della Cassazione penale che, escludendo la qualificazione del “metodo mafioso”, ha riformato (per il ricalcolo in riduzione) le condanne ai protagonisti (Buzzi e Carminati) dell’inchiesta “mafia Capitale”. Semina sconcerto la contemporanea Sentenza della Corte Costituzionale – pubblicata per un fortuito caso lo stesso giorno in modo contemporaneo – che censura “la rigidità “dell’ergastolo ostativo” per i mafiosi condannati (cominciando a mettere in disarmo la filosofia del regime carcerario del 41bis) . Sorge spontanea la domanda : che sta succedendo? Che significa ? Non ci vuole molta fantasia, né malizia, per ipotizzare che gli avvocati dei mafiosi – in particolare quelli che difendono gli ndranghetisti ancora sottoprocesso (o in carcere) nelle regioni del NordItalia – tenteranno, legittimamente, di utilizzare le due sentenze per modificare i possibili esiti dei giudizi in corso. Adesso, potendo scardinare risultanze investigative ed edulcorando posizioni processuali che, sino a pochi giorni fa, parevano già abbastanza compromesse.
Il contrasto alle mafie, vecchie e nuove, italiane e straniere, diventa così ancora più difficile, macchinoso e tortuoso. Spiazzando i gruppi investigativi delle forze di polizia. Va bene che le Sentenze non si commentano. Ma stavolta, emerge in modo netto come l’Italia non abbia più una filosofia politica condivisa e nazionale delle sue articolazioni statuali ed istituzionali. Seduti al tavolo di un bar, si potrebbe sinteticamente commentare : un casino!
La verità, è che siamo alle prese con uno tsunami culturale. Che mischia, disinforma, confonde. Che ha prodotto un pensiero sui generis che, dietro un pietoso velo che invoca un presunto garantismo, poggia i piedi su fatui concetti alla Friedrik Nietzsche, o persino peggio. Stabilendo (in buona sostanza) che per essere mafiosi bisogna anzitutto possedere un certificato di nascita al Sud di Napoli. E ancora peggio, che per operare e sopravvivere (e quindi qualificare come tale) “un’associazione mafiosa”, ci deve essere contemporaneamente : un determinato contesto ambientale connivente, una ritualità tradizionale di affiliazione, e fattuali legami di parentela o comparaggio. Tutta roba da SudItalia, insomma.
Considerazioni quantomeno beghine se pensiamo alla intercettazione della commercialista bolognese che per telefono spiegava a suo padre “l’onore che le concedeva” un noto ndranghetista stabilitosi in Emilia, che le aveva annunciato che sarebbe passata a trovarla al suo studio “nonostante i problemi di sicurezza che lo assillavano”. Fino a tre giorni fa , con l’aggravante mafiosa questa signora avrebbe subito, probabilmente, una condanna molto severa. Da domani, legittimamente, non sappiamo. Per non parlare della storia, molto recente, delle mafie nigeriane. Che sono state concepite originariamente in sedi universitarie e circoli rotariani di quelle latitudini. Anche se adesso vivono e prosperano, in Italia e nel mondo, quali (efficaci ed efficienti) alleate funzionali della Camorra in Campania e, soprattutto, come truppa militare mercenaria convenzionata con la Ndrangheta nel resto del mondo. Se si convinceranno di dover dismettere la loro fissa dei riti voodoo (e consimili), rischiano di non beccare più una condanna sopra i 4 anni di carcere ( a causa della sparizione dell’aggravante mafioso). Quindi anche un liberi tutti di fatto.
Vista la delicatezza degli argomenti toccati , però, vi proponiamo, “ad aiuvandum” di informarvi meglio , usufruendo di quattro punti di vista, di capacità critica e di estrazione culturale, caratterizzati da approcci differenti : la sociologa dell’economia Anna Lombroso, il magistrato Giancarlo Caselli, il giornalista liberal/anarchico Massimo Fini ed il giornalista liberal/socialista Pietro Caruso. Buona lettura.
La mafia non può esistere da Napoli in su. Parola di Cassazione.
Anna Lombroso – ilSimplicissimus.blogspot.it
La sesta sezione penale della Corte di Cassazione rischia di dar ragione a Massimo Carminati che aveva definito le relazioni che intercorrevano tra i fedelissimi della sua cerchia «quattro chiacchiere tra amici al bar», bocciando l’accusa di associazione mafiosa per quei due gruppi criminali che a Roma hanno intessuto una trama di affari illeciti con politici e colletti bianchi negli appalti dell’emergenza immigrati, del verde pubblico, della raccolta rifiuti. Viene respinta quindi la sentenza dei giudici della terza Corte d’Appello di Roma che l’11 settembre 2018 aveva riconosciuto il carattere mafioso per gli affiliati del mondo di mezzo: Er cecato, Carminati e il boss delle cooperative rosse Salvatore Buzzi sono sì due delinquenti ma non due mafiosi. E per loro e per altri imputati come Luca Gramazio, si terrà un processo d’appello bis per il ricalcolo delle pene alla luce della declassazione del reato in associazione a delinquere semplice.
C’è da pensare che la Corte per prendere le sue decisioni compulsi doverosamente Treccani e Devoto Oli che danno analoghe definizioni del termine con cui si designa il complesso di piccole associazioni criminose (dette cosche), segrete, a carattere iniziatico, rette dalla legge dell’omertà e regolate da complessi riti che richiamano quelli delle compagnie d’arme dei signori feudali, delle ronde delle corporazioni artigiane, ecc., sviluppatesi in Sicilia (spec. occidentale) nel sec. 19°, soprattutto dopo la caduta del regno borbonico. Quindi il sistema di appalti e gare pilotate, ricatti e corruzione, intimidazioni e usura, percosse e minacce messi in atto da er Cecato, Spezzapollici, er Nero, o Pazzo, Scassaporte, Gino il mitra, Puparuolo, col valore aggiunto epico di rituali di affiliazione a conferma di antiche fedi politiche per rafforzare l’adesione a quella rete opaca, abile nel nutrire l’humus associativo e la coesione di adepti e proseliti, anche tramite l’intimidazione, la riduzione in soggezione, la corruzione, la benevolenza o le botte potrebbe essere degradato a semplice cerchia di malviventi comuni grazie all’attenuante geografica di esercitare le loro attività a Roma e non a Corleone.
Quindi in barba all’autorevole dizionario Treccani che amplia la definizione generica per adeguarla ai tempi nostri precisando come la mafia si sia sviluppata ulteriormente in questo secolo “nelle realtà urbane come potere ampiamente indipendente che trova… nuovo alimento soprattutto nel clientelismo politico, fino a costituire una vera e propria industria del crimine che, con violenza crescente e mostrando notevole adattabilità e stendendo la propria influenza all’intera realtà sociale ed economica, in particolare concentrandosi sul controllo dei mercati, delle aree edificabili, degli appalti delle opere pubbliche e, più recentemente, del traffico di droga…”, ricordando anche come il termine sia inoltre “usato internazionalmente con riferimento a organizzazioni che, pur non avendo alcun legame di filiazione con la mafia siciliana, presentano tuttavia strutture e finalità consimili”, la autorevole Corte ci vuol fare intendere che erano si malfattori ma non mafiosi.
Perbacco, banditi sì ma non capicosca, ladri e cravattari ma senza il marchio di Cosa nostra, corruttori e spacciatori in grande stile ma senza coppola: né il Carminati appunto, ex terrorista finito in carcere più volte, legato alla banda della Magliana, addestrato in Libano durante la guerra civile, noto per la benda nera che copre l’occhio offeso durante una sparatoria con la polizia, e nemmeno l’altro, Buzzi, un assassino che aveva ammazzato un balordo con 34 coltellate per paura che interrompesse la sua carriera di bancario prestato al racket, ma senza le aggravanti da 41 bis, tanto da venire assimilati, blanditi e vezzeggiati, finanziati per via dell’edificante conversione umanitaria nei salotti buoni di attori, cantanti, giornalisti, sindaci insospettabili, politici, Scalfaro compreso che rende omaggio all’assassino diventato detenuto modello con tanto di laurea, padrino, è il caso di dirlo, della cooperativa 29 giugno, del quale Miriam Mafai disegna un ritratto agiografico, e alla cui tavola ministri in carica e candidati di indiscussa integrità siedono in occasione di giulive cene sociali e di raccolta fondi.
Adesso sappiamo che se diciamo che Carminati e Buzzi oltre essere assassini, criminali abituali e reiterati, strozzini inveterati, sono “mafiosi” rischiamo la querela perché quel “mondo di mezzo” che dopo la fase temporanea del recupero crediti si allarga, con l’appoggio esterno di mafiosi e camorristi veri e propri, quelli della tradizione della lupara e colletti bianchi di nuova generazione, commercialisti e avvocati in veste di “consigliori”, condizionando gli appalti, ottenendo l’assegnazione di lotti e concessioni, occupando militarmente il settore immobiliare anche grazie al business dei Caat, quei Centri di assistenza abitativa temporanea voluti ai tempi di Veltroni sindaco, che dovevano assorbire l’emergenza senzatetto per foraggiare le famiglie degli immobiliaristi romani e dalle cordate del cemento, è un’altra cosa e non Cosa Nostra.
E dunque a guardar bene che differenza ci sarebbe tra quella e questa cricca?
Costituita da terroristi, assassini e lestofanti miracolosamente tornati in seno al consorzio civile dopo condanne troppo brevi e discutibili proscioglimenti, favoriti da ex commilitoni neri per niente pentiti e assurti a ruoli prestigiosi che ben presto hanno finito per dover chiedere protezione da ricatti e intimidazioni esercitati dagli stessi malfattori recidivi; se la minaccia e il taglieggiamento erano il sistema di relazioni instaurato anche grazie agli uffici di professionisti famosi per via delle loro procedure di persuasione come Spezzapollici metodi persuasivi; se l’infiltrazione e l’occupazione dei gangli vitali della città interessava tutto il tessuto economico anche quello apparentemente legale e sano e perfino quello a forte contenuto sociale, grazie alla benevola erogazione di concessioni e benefici speciali elargiti alle cooperative di Buzzi, a cominciare da uno stabile in via Pomona, elargito a 1200 euro al mese dall’onesto Marino – un miglioramento rispetto alla concessione a titolo gratuito del camerata predecessore; se i solerti uffici di pezzi grossi dell’amministrazione alla “gestione” dell’emergenza umanitaria (Odevaine dopo essere stato vice capo di gabinetto di Veltroni e capo della polizia provinciale con Zingaretti, era in libro paga con 5000 euro al mese) conferma la perspicacia di gangster nell’intuire le fortune di un brand più profittevole di quelli usuali, droga in testa.
Le pistole erano ancora in uso, ma servivano a forme di convinzione più incalzanti nell’esercizio del ricatto, collaudato con efficienza dal “Cecato” fin dai tempi della rapina al caveau della filiale della Banca di Roma all’interno del Tribunale, quando vennero forzate le cassette di magistrati, avvocati e politici alla ricerca non di denaro e gioielli, ma di più preziosi documenti da impiegare per estorsioni e coercizioni.
Ma non sarà che la normalizzazione della malavita e del malaffare delle quali tutti erano a conoscenza se ricatti e intimidazioni e pressioni indebite avevano come teatro uffici degli enti pubblici, istituti finanziari, anticamere dei palazzi, salotti, osterie e caffè, serve solo a creare una artificiosa differenza con la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta, per farci ingoiare certe cupole legali che strozzano, intimoriscono, impauriscono, minacciano anche grazie a regole, norme, disposizioni create in moderna sostituzione della lupara?
Ma la mafia non è solo coppola e lupara.
Gian Carlo Caselli – huffingtonpost.it
“Ao’, quello che te sto a dì è Cassazione!”. Così “Er Monnezza” (il commissario Nico Giraldi di Tomas Milian) quando voleva mettere a tacere chi la pensava diversamente. Proprio quel che i latini esprimevano dicendo che la Cassazione “facit de albo nigrum” oppure “aequat quadrata rotundis”. In parole povere, quando la Cassazione sentenzia, il discorso tecnico-giuridico è definitivamente chiuso. Può però accadere che la Cassazione si esprima più volte, contraddicendosi, sullo stesso caso. E allora? A quale Cassazione credere? Per convenzione l’ultima cancella le altre. Per cui, nel caso di “mafia Capitale” a prevalere è la Cassazione del 22 ottobre, che ha escluso la configurabilità della mafia non ravvisando gli estremi del 416 bis. Il che non impedisce di rimarcare che a questa conclusione si è arrivati con un percorso che definire tortuoso e accidentato è davvero assai riduttivo.
Procura e Gip (dicembre 2014) non avevano dubbi: è mafia! E la Cassazione confermò la tesi in sede di convalida degli arresti. Ma in Tribunale (luglio 2017), ecco il ribaltone: non è mafia! Brutti figuri, certamente responsabili di gravi reati, ma non mafiosi. Frattanto, varie sentenze anche di Cassazione, relative a casi analoghi a quello di Roma, avevano ribadito la tesi della mafia. Così, anche per Roma, la Corte d’Appello (2018) poté sentenziare: è mafia! Ma la Cassazione (e siamo arrivati a oggi) rovesciando questo verdetto è tornata alla tesi del Tribunale: non è mafia!
Com’è possibile che gli stessi identici fatti portino a decisioni giurisprudenziali altalenanti ed opposte? Dire che è fisiologico – perché è lo stesso sistema a prevedere verifiche successive attraverso più gradi di giudizio – è vero, ma non basta. Nel caso di specie il vero nodo dei problemi è lo scontro fra “due culture”. Secondo la prima, mafia è solo quella tradizionale (coppola e lupara, aree geografiche storicamente circoscritte, affiliazioni rituali, spreco di violenza esibita…). Per la seconda, invece, possono esserci anche “nuove” mafie, come sarebbe appunto quella di Roma: autoctona ed originale, fondata sul “carisma criminale” dell’estremista nero Massimo Carminati e sulle pratiche corruttive che pilotavano gli appalti, avvantaggiando in particolare le cooperative “rosse”; con una “riserva di violenza” da utilizzare quando necessario. Quale “cultura” è più giusta? Ovviamente il problema va risolto in concreto, caso per caso, (e sarà interessante leggere la motivazione dell’ultima Cassazione).
In generale, per altro, non si può non osservare che ontologicamente la mafia è in continua evoluzione. Cambia pelle come un camaleonte, per potersi adattare (mimetizzandosi) alle esigenze di tempo e di luogo in cui volta a volta opera, così da conseguire il massimo profitto delle sue imprese criminali. Guai pertanto a fossilizzarsi su vecchi schemi. Sarebbe come ignorare il Dna della mafia.
Al riguardo merita ricordare un’altra sentenza della Cassazione, certamente non estranea al tema ora in esame. Si tratta di una pronunzia del 2015 riguardante il processo “Minotauro” (insediamenti della ’ndrangheta nella provincia di Torino), secondo cui è mafia a tutti gli effetti, pienamente rientrante nel 416 bis, anche la cosiddetta “mafia silente”. Quella cioè che intimidisce e assoggetta, non con manifestazioni criminali eclatanti, ma con “il non detto, il sussurrato, il semplicemente accennato”, quando ciò si ricolleghi a un potere criminale che fa paura ed è ben presente nella coscienza collettiva.
Gli interrogativi di mafia Capitale potrebbero pertanto ridursi a questo: anche il “carisma criminale” e la “riserva di violenza” di cui abbiamo parlato sono configurabili come declinazioni della cosiddetta “mafia silente” ? O no?
“Per Roma era quasi meglio la mafia”
di Massimo Fini – il Fatto Quotidiano
Dopo la sentenza della sesta sezione penale della Corte di Cassazione esultano i giornali romani e quelli più legati al mondo romano, un po’ meno i quotidiani del nord, compresi i notoriamente “ultragarantisti” Il Giornale e Libero che non danno alla notizia un rilievo particolare. Il Tempo: “Mafia Capitale non è mai esistita”. Il Messaggero: “Non era mafia Capitale”. Il Foglio: “Mafia Capitale era una fiction”. Sul Messaggero Mario Ajello, figlio di Nello Ajello (nel giornalismo italiano quasi nessuno è figlio di nessuno) si lancia in una intemerata contro la sentenza della Corte d’appello, riformata ora dalla Cassazione, che aveva definito Roma come una città potentemente infiltrata da associazioni mafiose che usavano metodi mafiosi. E scrive: “Era una fake news (la sentenza della Corte d’appello, ndr).
Ma quanti danni ha creato, quanta vergogna ha prodotto, come è riuscita ad annichilire la coscienza personale e pubblica dei romani, e ad abbattere l’immagine di capitale d’Italia e di caput mundi, l’etichetta di Mafia Capitale. Mai brand ha distrutto di più, agli occhi di tutti, la reputazione di una città… Mafia Capitale ha segnato la brusca interruzione del plurimillenario rispetto che il mondo portava a questa città, non solo per il suo passato ma anche per il resto della sua storia”.
E ALLORA che cos’era questa Mafia Capitale che non era mafia? Ce lo spiega, in tutta innocenza e con un certo candore, Il Foglio, un giornale che con un trucco, come ha ammesso Giuliano Ferrara che ne fu lo storico direttore, è in parte pagato dai contribuenti, cioè da noi: “Non era mafia, dunque, ma una semplice associazione a delinquere (‘corruzione come ovunque’ secondo Il Tempo,ndr) quella che dal 2011 al 2 dicembre 2014, data in cui deflagrò l’inchiesta con decine di arresti e rilevanza mediatica in tutto il mondo, avrebbe operato nella Capitale accaparrandosi appalti per la manutenzione urbana (come punti verdi e piste ciclabili) e per il sociale (gestione dei migranti) coinvolgendo anche i vertici di Ama, la municipalizzata dei rifiuti”… In quanto a Salvatore Buzzi era “un imprenditore a capo di una compagine di cooperative sociali che offriva lavoro a ex detenuti, con la complicità di politici e funzionari pubblici”. Il tutto condito con “intimidazioni e minacce”, cioè quella “riserva di violenza” riconosciuta in primo grado che il verdetto della Cassazione non ha smentito. Insomma bazzecole, cose di tutti i giorni da non meritare che si spacchi il capello in quattro.
Io dico che sarebbe stato meglio se in Roma fosse stata accertata la presenza di una mafia propriamente detta. Perché la mafia ha una struttura, un’organizzazione, una gerarchia, per cui si può pensare di poterla smantellare, almeno in linea teorica, risalendo dai “picciotti” ai sottocapi e ai capi. La corruzione capillare, il cosiddetto “mondo di mezzo” è invece “liquido”, come si dice oggi, non è individuabile se non caso per caso e può coinvolgere tutti, anche persone all’apparenza insospettabili. A differenza della mafia propriamente detta ti sguscia fra le dita, come acqua infetta, senza poter nemmeno sapere che ti ha sporcato.
IN QUANTO alla reputazione di Roma tanto decantata da Mario Ajello è patetica. Quando i piemontesi nel 1865 spostarono la capitale da Torino, troppo decentrata, decisero per Firenze tanto Roma era malfamata. Roma è splendida, ma è una città clientelare e corrotta dai tempi dell’Impero Romano. Come una cozza ha assorbito il peggio del Sud, trasportandolo poi al Nord, in particolare a Milano la fu “capitale morale”. Nel 1980 feci per Il Settimanale un’inchiesta intitolata “Via da Roma la capitale”. Roma infatti col progressivo accentramento di tutti i poteri, dai ministeri alla Rai alla stessa economia (gli imprenditori del nord dovevano fare code defaticanti davanti a sottosegretari e segretari, non dico ai loro ministri, irraggiungibili, per cercare di risolvere qualche loro problema) aveva finito per assorbire, nel modo peggiore, le energie positive del nostro Paese che allora non mancavano.
Ma molto prima di me, nel 1955, L’Espresso per l’illustre firma di Manlio Cancogni aveva dedicato pressoché l’intero settimanale a un’inchiesta intitolata “Capitale corrotta, nazione infetta”. Da allora nulla è cambiato, se non in peggio. Perché il cosiddetto “mondo di mezzo” è molto più inafferrabile della mafia. Io ribadisco quindi: meglio la mafia.
Le Mafie non abitano solo al Sud !
di Pietro Caruso – Direttore di Romagna Web TV
Io non credo che i giudici della Corte di Cassazione di Roma abbiano voluto entrare nei libri di storia con la loro sentenza di ieri che ha confermato il giudizio della prima sentenza eliminando per la banda Carminati, Buzzi & associati a vario titolo criminoso il reato di associazione mafiosa, obbligando così ad un futuro ricalcolo (in riduzione) le pene a suo tempo comminate dalla Corte d’Appello di Roma.
Io non voglio credere che il significato di questa sentenza si possa estendere a molte delle bande criminali che nel Centro e nel Nord d’Italia (e in molti Paesi della Ue) facendo decadere non solo “l’anima” del 416 bis, ma anche l’idea investigativa che la Mafia non ha più solo una origine siciliana, calabrese e campana. Perché, nel terzo millennio è concretamente contrassegnata, soprattutto, da un modello ed un metodo : intimidatorio, persecutorio, violento, che usa la corruzione come un veleno mortale, puntando a percepire il profitto con costante determinazione criminale e criminosa.
Massimo Carminati, ex militante dei Nar, ex aggregato alla banda della Magliana, é il soggetto che in un aula giudiziaria, in un passato abbastanza recente, ha rivendicato di avere scassinato 156 cassette di sicurezza, senza avere rubato per se un solo euro, ma di avere avuto accesso ad una serie di documenti contenuti in quelle cassette .
Forse dal contenuto riservato e delle quali ha conservato memoria mai rivelata? Non è forse questa una forma intimidatoria? O era solo millanteria? Non abbiamo modo di saperlo. In ogni caso è che il “mondo di mezzo” non è era semplicemente una invenzione mediatica, ma è stata una vera e attiva struttura di intermediazione tra bande criminali e istituzioni, società e politica. In una città nel cui contesto operano, attive o dormienti, almeno 40 fra bande criminali e mafiose, incluse quelle estere. Tutte fra di loro non si ignorano. Ma anzi, si spartiscono zone e filiere di interesse. E solo di rado si contrastano militarmente. Per cui ci sentiamo di dire : le sentenze non si giudicano, ma il “Contesto” si.
E non c’è bisogno di ritornare alle parole di Sciascia per delineare che la linea della Palma non solo é risalita fino al nord dell” Europa, ma ha anche fatto il giro del Mondo. Fecondando al suo ritorno, con i suoi metodi e la sua ideologia criminale, venale e di infiltrazione del potere, molte delle Capitali degli stati europei. Anche quella più antica: Roma.
Spero – ma sarò smentito – che la logica di questa sentenza non diventi un dispositivo di rilettura diminutiva di tutto l’apparato sanzionatorio antimafia. Spero, che i mafiosi non siano considerati solo quelli che lo giurano “facendosi pungere le dita”, per poi palleggiare fra le proprie mani le immagini cartacee, di santi e sante, bruciacchiate. Spero……