Tanti, troppi, Eventi e festival, ma gli italiani comprano e leggono sempre meno libri: per cui viviamo nella condizione del paradosso italico del somaro sapiens.
Noi italiani siamo grandi consumatori di festival eppure risultiamo tra gli ultimi nelle classifiche su numero di laureati e lettura. La realtà è che siamo sommersi da un flusso incontenibile di cultura spettacolarizzata che non è più conoscenza. Ma uno strumento per ottundere le coscienze.
Siamo in coda a tante classifiche internazionali su numero di laureati, competenze digitali, lettura di libri e giornali. Però siamo grandi consumatori di eventi culturali. Un popolo di chiacchieroni da talk show, che è la sintesi perfetta dell’apparente voglia di discorsi impegnati e informati, fatti però da pensatori veloci, fast thinker, come li chiamò il grande sociologo francese Pierre Bourdieu. Ovvero esperti e intellettuali di pronto intervento, tuttologi, capaci di parlare più veloci dei loro pensieri. Insomma aria fritta, anche quando ben confezionata. Voglia di sapere, però facile. Da quiz show. Da festival, da fiera, da sagra con libri, scrittori e musicisti serviti con il pacchetto tutto compreso, tra un dibattito, un concerto e una tavola rotonda apparecchiata.
LA FESTIVALOMANIA ALIMENTATA DAL BUSINESS DELLA CULTURA
È la dimensione turistica e spettacolare della cultura nazionale, e di noi italiani, che si impone largamente su quella più critica e riflessiva di una cultura che non sia solo consumo, evento, ma desiderio, più intimo e personale, di capire, approfondire, partecipare. La crescita dei festival, d’ogni tipo ormai, ne sono la spia. Dai pochi e storici, ma di rilievo nazionale di 20 anni fa (Salone del Libro di Torino e Festival della Letteratura di Mantova, Stagione lirica estiva dell’Arena di Verona o Rossini Festival), si è arrivati ai 400 del 2017, lievitati a più di mille due anni dopo.
Naturalmente la festivalomania non è solo italiana, ma mondiale, ed è alimentata dal grande valore economico che la cultura è venuta assumendo ovunque. E che si esprime anche nella crescita ormai inflazionata di siti e beni nominati patrimoni culturali dell’umanità, sotto l’egida Unesco e nella moltiplicazione di capitali europee e nazionali di qualcosa (per l’anno corrente Parma è la capitale italiana della cultura, mentre Padova e Trieste sono quelle europee del Volontariato e della Scienza).
UN FURORE culturale CHE NON SI TRADUCE IN AUMENTO DEI CONSUMI di cultura
Tutto questo fermento e movimento ha anche aspetti positivi. Che però nascondono rilevanti questioni di fondo. A partire dalla constatazione che tutto il furore festivaliero e culturale non si traduce, o minimamente, in consapevolezza e aumento del mercato e della domanda di beni e consumi culturali di qualità (si pensi per esempio alla musica classica, che praticamente continua a essere confinata su RadioTre). Allo stesso modo non risulta che il dibattito pubblico, politico o culturale in senso lato, o il tono delle conversazioni sui canali social si sia giovato della proliferazione di congressi, convegni, conferenze, meeting. Ovvero di parole, discorsi, presentazioni, relazioni, tavole rotonde. Secondo l’Osservatorio Italiano dei Congressi e degli Eventi nel 2018 in Italia sono stati complessivamente realizzati 421.503 eventi. Più di mille al giorno, che hanno complessivamente coinvolto più di 28 milioni di italiani.
IL LAVORO CULTURALE VALE 96 MILIARDI DI EURO
Ma non sono solo chiacchiere: per completare, sia pure per larghe trame, il discorso sul paesaggio culturale italiano. Perché il sistema produttivo culturale e creativo (da solo, senza considerare gli altri segmenti della nostra economia che impiega comunicatori, designer, registi) dà lavoro a più di 1,55 milioni di persone, il 6,1% del totale degli occupati in Italia, generando un valore aggiunto di oltre 95,8 miliardi di euro (dati Symbola). A cui vanno aggiunti gli insegnanti di scuola e docenti universitari, che sono un’altra bella fetta di lavoratori intellettuali. E volendo, ma solo per dare un’idea dell’estensione assunta dal lavoro culturale, anche tutto quel tessuto pulviscolare, ma estremamente diffuso, di semi-professionisti e dilettanti – scrittori e pittori della domenica, come si diceva una volta -, che caratterizzano e animano atelier e piccole gallerie d’arte, circoli di lettori e premi letterari un po’ in tutt’Italia.
Per farla corta dovremmo essere un faro mondiale di cultura e civiltà, di sensibilità estetiche, consapevolezze identitarie e orgoglio civico. Ma in realtà come ha scritto Goffredo Fofi nel suo pamphlet L’oppio del popolo siamo sommersi da un flusso incontenibile di cultura sempre più spettacolarizzata e manipolata, che non è più conoscenza, ma solo uno strumento per ottundere le coscienze. «Un gran giro di soldi, un gran giro di chiacchiere», scrive Fofi. «Ma non sarà che il sistema di cui facciamo parte, di cui siamo complici, si serve di questo eccesso di cultura anche per distrarci dal concreto agire collettivo, intontendoci di parole, immagini, suoni?».
SIAMO SOPRAFFATTI DAL DIVERTIMENTO
Informare, educare, divertire. È la storica ragione sociale della Bbc. Una triade che ora non se la passa bene nemmeno in Inghilterra, ma peggio in Italia. Informare e soprattutto educare sono infatti campi e missioni (di servizio pubblico) ormai sopraffatti dal divertimento. Che in forza del suo assoluto dominio è diventato sgangherato oltre ogni dire. Presente ovunque anche nei tigì, non solo quelli satirici, e negli intermezzi comici dei talk show politici, che avrebbero obbligo di serietà e invece vanno di Gnocchi & Co.
Siamo sommersi da un flusso incontenibile di cultura sempre più spettacolarizzata e manipolata, che non è più conoscenza, ma solo uno strumento per ottundere le coscienze
Tuttavia, a mio avviso, lo spirito televisivo dei tempi non si esprime tanto nell’imperversare catodico e pubblicitario di Mara Maionchi e Joe Bastianich, o negli indecorosi spettacoli del Grande Fratello Vip, quanto nell’invasione mediatica di spadellatori, chef, gastronomi, dispensatori di ricette. Perché il food è perfetto per rappresentare un’ossessione che è fisica e mentale nello stesso tempo, sempre in bilico fra i due estremi dell’eccesso e dell’assenza, dell’abbuffata e della dieta. Come ha reclamato recentemente il maestro Riccardo Muti in un’intervista al Messaggero: «Basta cuochi, in tivù c’è bisogno di cultura». Aggiungendo, rivolto ai nostri governanti: «Chi guida deve servire i cittadini, nell’ora del declino si rileggano Orazio». Già: ma riuscite a immaginarvi i vari Salvini, Renzi, Di Maio alle prese con un saggio di Platone o all’ascolto di Beethoven o Mozart? Piuttosto con l’ultimo album di Diabolik o Tex Willer.
MANCA UN ARGINE ALLA DERIVA CULTURALE
Con ciò non si vuole assolutamente esprimere rimpianto per la tivù pedagogica delle origini: pedante, grigia e piuttosto noiosa. Come si potrebbe peraltro in un contesto che è sempre più digitale e crossmediale rispetto ai generi e ai linguaggi? Resta però il fatto che oggi la cultura è incapace, come lamenta il regista teatrale Romeo Castellucci, di produrre idee creative e libertà di pensiero. Per il cinema, ma soprattutto per il teatro che resta per eccellenza il luogo fisico in cui «si prende posizione», non si stratta solo di vendere biglietti, che pure sono importanti, ma di sottrarsi alle logiche burocratiche dei “bandi assessorili”. Tornando a promuovere spirito critico, anticonformismo e ribellione, rispetto a un sistema sociale, come quello attuale, che è più morto che vivo. Certo in via di superamento. Ma proprio per questo bisognoso di persone, di cittadini che tanto per cominciare si oppongano risolutamente alla deriva culturale attuale fatta di miseria cognitiva, analfabetismo di ritorno, esaltazione del pensiero semplificato contrapposto alla pedanteria del pensiero critico.
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